Amorale, sensuale, implacabile. Ecco la “Lady Macbeth” di Oldroyd, giovane e ribelle. Perché la libertà non ha prezzo

(di Patrizia Pedrazzini) Il trentasettenne londinese William Oldroyd si colloca, in patria e non solo, fra i più apprezzati registi teatrali del momento. Direttore del London’s Young Vic Theatre, ha all’attivo allestimenti internazionali acclamati, fra i quali “Spettri” di Ibsen, “Kean” di Sartre (Tokyo), “Aspettando Godot” di Beckett (Monaco), “La serva padrona” di Pergolesi (Lisbona), “I due nobili congiunti” di Shakespeare alla Royal Shakespeare Company. Ora (dopo due corti) esordisce sul grande schermo e, va subito detto, lo fa alla grande. Mettendo mano a una novella russa scritta d Nikolaj Leskov nel 1865, “Lady Macbeth del Distretto di Mcensk” (adattata, nel ’34, da Šostakovič per un’opera che venne poi bandita dal regime stalinista) e facendone un noir vittoriano sensuale e implacabile, impressionante nella sua austerità e nella sua violenta ambiguità morale, che già appare incamminato verso la strada del cult.
L’ambientazione, prima di tutto. Metà Ottocento, Inghilterra del Nord Est, ai confini con la Scozia (più precisamente nel Northumberland, dove il film è stato girato in 24 giorni). Boschi selvaggi, basse colline, distese di erica battute dal vento, nebbie, freddo, corsi d’acqua gelidi, luci cupe. La brughiera. La terra desolata e inospitale nella quale echeggiavano le voci di Heathcliff e di Catherine. Ma è questo il solo tributo che il film di Oldroyd paga a Emily Brontë e al suo “Cime tempestose”, a parte il nome della protagonista.
Che qui, e veniamo alla storia, si chiama Katherine, ha 17 anni, e va in sposa a un uomo che non solo non la ama e ha il doppio della sua età (dettagli abbastanza trascurabili, per l’epoca), ma nemmeno la sfiora, umiliandola e costringendola a sopportare le rigide regole di una famiglia – e di un società rurale e patriarcale – dura, spietata e priva del minimo slancio umano. Solo che Katherine non è fatta per sopportare. E nemmeno per accettare. Per cui si ribella. Prima iniziando, con un giovane stalliere alle dipendenze del marito, una relazione che, ben lungi dal parlare d’amore, ha tutte le caratteristiche, da parte della donna, dell’ossessione amorosa (e troppo tardi il poveretto se ne renderà conto, tentando inutilmente di scamparne). Poi sbarazzandosi prima dell’odioso suocero, quindi, nel momento in cui l’adulterio diverrà di dominio pubblico, dello spregevole consorte. Ma non si accontenterà dei “colpevoli”: la strage (tutta al maschile) farà vittime anche tra gli innocenti.
In una spirale di violenza che la stringerà come i rigidi corsetti che la domestica le stringe al busto tutte le mattine quando la veste, ma che non riuscirà a soffocarla. Perché non accettare la propria sorte, prendere in mano la propria vita, conquistarsi l’indipendenza, non ha prezzo. O, meglio, ha un prezzo altissimo.
Un tipo di donna che, come dice lo stesso Oldroyd, “nella letteratura del tempo di solito soffre in silenzio, nasconde i propri sentimenti, o si toglie la vita”. Ma non è il caso di Katherine, la spietata fanciulla qui resa con rara bravura dalla giovane (classe 1996, già vista in “The Falling”) Florence Pugh. Bella, fresca, florida come la sua giovinezza, ma insieme forte e sicura di sé, e capace di trasformarsi da ragazza innocente in mostro manipolatore. Terribile mentre, ordinatamente pettinata e vestita di un severo abito blu, del quale si accomoda con cura le pieghe, seduta composta su un divanetto al centro di un’austera stanza, riflette, prende fiato e tempo, medita la propria personale vendetta al ritmo regolare e implacabile del pendolo.
Infine, appunto, gli interni. Che ben dipingono la sensazione di soffocamento, di spazio limitato, di quel sentirsi ed essere in gabbia, se non in trappola, che imbriglia la protagonista e l’intera storia. E per i quali Oldroyd si è ispirato, più che alla pittura inglese, a quella scandinava, nel tentativo, ottimamente riuscito, di rendere le atmosfere glaciali e la luce fredda e plumbea del Nord.
Niente di più efficace per fare da sfondo a un dramma a porte chiuse sulla violenza di un mondo angusto, gretto e isolato che, ben lungi dal percepire la bellezza, non conosce neppure la pietà. Di inquietante amoralità.

Trackbacks

  1. […] solitudine, Katherine si libera di chiunque si frapponga tra lei e la sua sete di libertà… (qui la nostra […]