(di Patrizia Pedrazzini) Che cosa manca a “Song to Song”, ultima fatica del regista cult Terrence Malick, per essere, se non un capolavoro, quanto meno un film apprezzabile? Non il cast, forte di cinque stelle del firmamento hollywoodiano: Ryan Gosling, Rooney Mara, Michael Fassbender, Natalie Portman, Cate Blanchett. Non l’ambientazione, poco consueta ma proprio per questo stimolante: la città texana di Austin, la capitale della musica live nel mondo, nota per i suoi festival, i club, i bar, i locali nei quali, all’insegna della più totale libertà creativa, si suona di tutto, country, folk, blues, new wave, punk, rock. Non i brani e le canzoni dei quali il film è disseminato (ma che non ne fanno un musical): 75, tutti di primissima qualità, da Gustav Mahler a Lykke Li. Senza dimenticare la partecipazione, nel ruolo di se stessi, di mostri sacri del rock internazionale: da Patti Smith a Iggy Pop ai Red Hot Chili Peppers. E per non parlare della fotografia, come sempre magistralmente diretta dall’ormai inseparabile (per Malick) Emmanuel Lubezki, tre Oscar per “Gravity”, “Birdman” e “The Revenant”.
Quanto al settantatreenne Terrence Malick, di Ottawa (Illinois), è inconfutabilmente un regista di prestigio. Riservato, appassionato di filosofia (con laurea ad Harvard), perfezionista fino al maniacale, non ha firmato moltissimi film, ma pur sempre lavori del calibro de “I giorni del cielo”, “La sottile linea rossa”, “The New World – Il nuovo mondo”, “The Tree of Life”, “Knight of Cups”. Pellicole non facili, magari faticose, impegnative, ma mai gratuite.
Qui invece, in “Song to Song”, qualcosa non va. Forse la trama? In realtà si tratta di una banale storia di amore e tradimenti fra un musicista (Gosling), una cantautrice (Mara) e un produttore (un luciferino Fassbender), nella quale si inserisce una quarta figura: quella di una fragile cameriera (Portman) che finirà sedotta e fagocitata dal cinico produttore. Mentre la cantautrice, pentita, farà ritorno dal musicista che ancora ama. Il più classico e scontato dei triangoli, che tuttavia, se lo si riuscisse a leggere come una riflessione sul lato oscuro del successo e della sua ricerca, per esempio, potrebbe magari elevarsi al di sopra dell’ovvio. Solo che non è nemmeno così.
In realtà “Song to Song” è un film nel quale tutto è maledettamente bello, gradevole e ben fatto. Dai dintorni selvaggi di Austin (l’unica scena girata fuori dal Texas è ambientata fra l’incanto delle piramidi maya dello Yucatan) agli interni degli appartamenti in stile minimalista, agli ultimi piani dei grattacieli con vista sull’orizzonte. Come belli sono i protagonisti, tutti, uomini e donne: snelli, scattanti, curati, con la pelle liscia e vellutata, gli abiti firmati, i colori giusti, i capelli in ordine. Persino la sensualità, che pure viene proposta (ma sarebbe meglio dire suggerita), scompare, annullata da tanta algida bellezza: non si sente, non si vede, forse perché non c’è. Mentre le voci fuori campo, che ancora una volta Malick utilizza per raccontare emozioni e monologhi interiori finalizzati a mettere a nudo, in una sorta di autoanalisi, intimi dubbi, paure, speranze, ambizioni, non fanno che enfatizzare, insieme alle inquadrature volutamente “deviate” e alle profondità di campo apparentemente infinite della pur seducente, bellissima fotografia, la sensazione di qualcosa di patinato e insieme di freddo e distaccato. Senz’anima.
Se poi a tutto questo si aggiungono uno stile narrativo frammentario e una certa mancanza di linearità, per cui il passato, il futuro e il presente spesso si intrecciano, a tutto discapito della cronologia degli eventi e della coerenza, quello che ne deriva sono 129 minuti di ansia e di dolente insofferenza. Per cui non si capisce nemmeno più cosa c’entri Austin, per esempio, visto che tutto quello che questo luogo incarna e rappresenta si limita a fare da pallido sfondo alla storia e niente più. O perché Patti Smith (che però almeno, con le sue rughe, i suoi anni e i suoi capelli scarmigliati, non è bella ma senz’altro è viva) si metta a spiegare alla protagonista che cosa significhi essere donna in campo discografico, assurgendo a sorta di mentore per le nuove generazioni.
Ma tant’è. Malick è di quei registi che o si amano o si odiano, o si “sentono” o ci si annoia a morte. E liberissimi di vedere, in “Song to Song”, l’ennesima fine di un paradiso perduto alla stregua di “The New World”. O la visionaria mitologia dell’anima di “The Tree of Life”. O l’alienazione del “felliniano” (per qualcuno paragonabile a “8 ½” del regista riminese) “Knight of Cups”. I film di Malick hanno sempre scavato una profonda linea di demarcazione fra chi grida al capolavoro e chi non riesce ad arrivare alla fine della proiezione.
Ma che succede quando lo stile diventa manierismo, e la grandezza un cliché?
“Song to Song”, l’ultima fatica di Malick. Dove tutto, musica, fotografia, interpreti, è maledettamente bello. E senz’anima
9 Maggio 2017 by